Venere e Adone di Shakespeare, fu composto nel 1593. È uno dei poemi più lunghi di William Shakespeare, costituito da 1194 versi e dedicato a Henry Wriothesly, terzo conte di Southampton, in cui il poeta descrive la poesia come “il primo erede della mia invenzione”. La città è infestata dalla peste e deve chiudere i battenti di tutti i suoi teatri per evitare il diffondersi dell’epidemia. Shakespeare si ispira al decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio e definisce Venere e Adone “il primo parto della mia fantasia”.
Quando l’amico di scuola di Shakespeare, Richard Field, pubblica “Venere e Adone” è, da subito, un grande successo. Si può affermare che sia stato il poema più popolare dell’età elisabettiana. Tutti lo leggono. Tutti lo citano. Troviamo citazioni anche in altri poemi. Ci sono riferimenti ad esso anche in lavori di prosa. Ci sono scene, in alcune opere, in cui i personaggi parlano della lettura di “Venere e Adone”, dicono di averne una copia sotto il cuscino e di usarne le parole per sedurre le giovani donne.
Apprezzatissimo fra gentiluomini e cortigiani, in breve divenne una sorta di vademecum dell’amatore, ugualmente popolare nella biblioteca, nel boudoir e nel bordello.
Viene ristampato più e più volte. Field sembra abbia stampato 1000 copie della prima edizione. Il poema è in egual misura comico, erotico e commovente: la Venere di Shakespeare è passionale, una dea innamorata e pazza di desiderio. Adone è un giovane bellissimo che le sfugge e preferisce i piaceri della caccia a quelli dell’amore, sia pur divino.
Nonostante gli abbracci, le carezze e gli avvertimenti della dea, il giovane parte per una battuta di caccia al cinghiale che lo azzanna provocandogli una mortale ferita all’inguine. Venere accorre, ma è troppo tardi: non le resta che trasformare il sangue dell’amato esanime nei rossi fiori dell’anemone…Ma da quel momento la Dea giura su quanto vi è di più sacro che mai più per i mortali l’amore sarà privo di ogni sorta di tormento e sofferenza.
L’esercizio della Poesia è una prova di resistenza alle difficoltà quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Chi parla in Poesia spesso deve fare i conti con una società che non comprende un pensiero puro, sganciato dalle logiche commerciali o produttive ritenute così importanti ai nostri giorni. Le vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della Poesia perché essa, di fronte alle epidemie, alle guerre, alle decapitazioni, al terrorismo, alle violenze inaudite, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. “La poesia è magnificamente superflua, come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione.” Ci sono uomini come William Shakespeare che hanno combattuto la superficialità, la stupidità, l’arbitrio e la violenza quotidiana, con la forza della Parola. E di questa parola “luminosa” vogliamo godere, attraverso questo privilegio unico, sonoro e poetico, tentando di superare le assurdità della vita contemporanea. Questo mondo di versi è distillato prezioso di poesia e altissima letteratura.
Il tentativo è quello di entrare direttamente nelle menti e nei cuori dei personaggi, nei loro desideri, nei loro affanni, nelle loro ansie e speranze disattese o soddisfatte. L’equilibrio delicatissimo in cui si muovono tutte le figure del poema, compone un affresco di una potenza espressiva straordinaria.
La febbre del nostro tempo ci porta a vivere in una realtà anestetizzata, un mondo fittizio in cui l’emozione è bandita, al servizio di un intellettualismo sterile e desolante. I nostri occhi sono quotidianamente accecati da immagini provenienti dai media. La legge del mercato non perdona: si vendono cadaveri, posizioni sociali, incarichi pubblici, armi, sesso, infanzia, organi. Restiamo indifferenti. La dimensione borghese soffoca i nostri migliori istinti, la nostra sensibilità (che brutta parola oggi, considerata quasi scandalosa), la nostra sincerità e si porta via ogni forma di creatività, ogni volo, ogni fede. La nostra dimensione irrazionale viene completamente annientata. Il senso dell’affermazione dell’ Io divora i nostri giorni. L’arte è svuotata della sua dimensione spirituale: siamo in un momento di emergenza assoluta. Il vero virus è dentro le nostre anime. La cultura attraversa una crisi epocale : mancano la necessità, la fede, la fiducia in qualcosa di superiore, la luce di un angelo che possa elevare i nostri destini. Santa Teresa d’Avila scriveva “Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo”. Ma oggi il nostro corpo è divenuto merce, moneta di scambio, non più sede inviolabile della bellezza e dell’estasi. I media, persuasori occulti, agiscono sui nostri cuori e sulle nostre menti addomesticando anche gli spiriti più ribelli, sigillando gli occhi più attenti. La dimensione spirituale è irrimediabilmente perduta. Il senso del sacro è ormai sconosciuto. Siamo ormai definitivamente trasformati in consumatori e, nel medesimo istante, prodotti, sconvolti da una guerra mediatica senza precedenti nella storia. Illusi della nostra unicità, della nostra peculiarità, in realtà pensiamo tutti nello stesso modo, diciamo le stesse parole, abbiamo tutti le stesse esigenze, le stesse speranze, le stesse ansie, la stessa quotidianità fabbricata in serie. Ci illudiamo di essere liberi.
I personaggi di Venere e Adone divengono testimonianze di un mondo perduto e dimenticato, un mondo cristallino, sospeso sul filo dell’orizzonte. Il ‘900 ha razionalizzato irrimediabilmente le pulsioni dell’animo umano, le ha ingabbiate, catalogate ed educate. Shakespeare riesce ancora a comunicare in modo diretto, ”puro”; ci fa entrare nel vivo della disperazione, della rabbia, dell’amore, della dolcezza, della sensualità. Non descrive, non applica filtri letterari. Semplicemente “è”. Quando i teatri riaprirono, Shakespeare fece tesoro di questo suo spericolato tuffo nelle insidie dell’amore e compose Romeo e Giulietta, simbolo di gioia e tormento per tutti gli innamorati dei secoli a venire.
Daniele Salvo